Parità salariale: non basta la legge L’importante è come si applica

Come si pone il settore legal in merito ai cambiamenti in atto nel mondo del lavoro e del ricollocamento professionale? Lo scopriamo grazie a "Vox!", la rubrica di LHH in collaborazione con i più importanti avvocati giuslavoristi.
12/10/2022
Daniela Fabbri

 

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A poco meno di sei mesi dalla sua approvazione, la legge “sulla parità salariale e di opportunità sul luogo di lavoro” (L. 162/2021) attende che vedano la luce i decreti attuativi e che vengano individuate le risorse per gli sgravi contributivi inseriti nella norma. Nel frattempo, da quasi due anni il Parlamento europeo sta discutendo di una direttiva sullo stesso tema, fra le moltissime difficoltà legate alle situazioni radicalmente diverse dei vari Stati membri. Con l’avvocato Donatella Cungi, socia dello studio Toffoletto De Luca Tamajo e da sempre attenta osservatrice del tema della discriminazione di genere in particolare sui luoghi di lavoro, abbiamo cercato di fare il punto della situazione.

 

Avvocato Cungi, la disparità salariale è un dato oggettivo che penalizza in modo pesante le donne. La nuova legge italiana è uno strumento adeguato per contrastarla?

 

Intanto è opportuno ricordare che la norma riguarda la discriminazione in tutte le sue forme, dirette e indirette. Per la prima volta viene ben specificato che non ci devono essere né situazioni né circostanze che possano far sentire le persone discriminate nello svolgimento della propria attività lavorativa. E la tutela viene estesa anche ai candidati, cioè a coloro che ancora nemmeno fanno parte dell’azienda. La parità salariale è quindi una parte di un più generale diritto all’eguaglianza, per esempio a livello di progressione di carriera. Molto dipenderà, certo, da come la norma sarà applicata. Ma personalmente trovo che una delle cose più importanti sia l’obbligo della redazione di un rapporto biennale da inviare al Ministero del Lavoro, alle rappresentanze sindacali e Consigliere di Parità (in cui le aziende dovranno dettagliare tra l’altro le condizioni salariali dei propri dipendenti) per le aziende con più di 50 dipendenti. Se poi, come è stato detto, il Ministero pubblicherà sia l’elenco delle aziende che adempiono sia di quelle inadempienti, è evidente che entrerà in gioco la reputazione aziendale, il tema etico, in ottica di Environmental, Social and Corporate governance, che ormai sono strategici per ogni impresa.

 

Siamo però ancora in attesa dei decreti attuativi…

 

Per ora sì. E anche dei finanziamenti. I fondi del PNRR non sono ancora arrivati e siamo fermi al fatto che la norma prevede che ci saranno sgravi contributivi fino a 50mila euro per le aziende virtuose per il 2022. Non è una misura strutturale, deve essere rifinanziata nel tempo. Una novità della norma è la Certificazione di Parità (il cosiddetto “bollino rosa”) per le aziende virtuose che consentirà di accedere a sgravi contributivi e vantaggi nelle gare d’appalto. La Certificazione esisteva già ma in pochissimi si sono presi la briga di capire quali potenzialità avesse. Il risultato è che è rimasta praticamente inapplicata. Ora anche per la nuova norma si tratterà di capire come sarà applicata. Gli sgravi contributivi potrebbero essere uno stimolo, purché vengano rifinanziati. Ma certo serve un lavoro profondo sul cambiamento culturale delle aziende.

 

Come favorire il cambiamento culturale in questo senso?

 

Gli avvocati giuslavoristi possono essere dei validi alleati, se l’azienda lo permette, magari con l’aiuto di coach ed esperti di cambiamento culturale. Possono rivolgersi alla prima linea aziendale, partendo dall’alto verso il basso, perché queste sono tutte riforme che funzionano solo se ci crede il top management. Bisogna fare un lavoro che faccia emergere l’importanza della diversità del pensiero, capire che non valorizzare le donne significa non considerare il 50% dei possibili talenti ma anche dei potenziali clienti.

 

Basta una legge per promuovere il cambiamento?

 

Io ero contraria alla legge Golfo-Mosca che introduceva le quote per le donne nei consigli di amministrazione delle società quotate. Ma mi sono ricreduta. Non è la panacea di tutti i mali, ma almeno ha consentito alle aziende (quotate) di conoscere l’apporto di un consigliere donna e in cosa può consistere la differenza di pensiero. In questo caso è lo stesso: ci saranno resistenze, ma le aziende che sceglieranno di applicarla davvero misureranno un grande miglioramento del clima aziendale, che favorirà la retention e, soprattutto, consentirà di attrarre i migliori talenti.

 

Cambierebbe qualcosa di questa legge?

 

Ho un timore: che in alcuni passaggi ci sia troppa carta da produrre e che le aziende la vivano come l’ennesimo appesantimento. Poi penso che sarebbe stato utile prevedere la possibilità di finanziare la consulenza sull’applicazione della norma. La gran parte delle aziende si rivolge al legale solo quando è arrivata in giudizio, mentre la parte importante è quella della prevenzione e dell’implementazione delle policy antidiscriminatorie aziendali. Poter finanziare queste attività di consulenza avrebbe probabilmente consentito di ingaggiare in modo concreto le aziende su questa tematica. Che, lo ricordo, è solo un piccolissimo passo verso quel soffitto di vetro che ancora non riusciamo a sfondare: gli amministratori delegati donna non arrivano all’4% del totale (7% in Europa), una percentuale davvero vergognosa.